Parliamo di verdure nel tempo. C’era una volta la verdura che, mentre gli uomini si dedicavano alla caccia e alla pesca, le donne selezionavano e coltivavano nei rudimentali orti realizzati intorno ai villaggi. Furono loro a tramandare l’antichissima conoscenza delle specie vegetali commestibili.
Le prime verdure comparvero sulle tavole 5000 anni fa, ovvero a partire dal Neolitico, che segna il passaggio da un’economia nomade a una di tipo stanziale, basata sulla manipolazione delle piante selvatiche e consistente nella raccolta e nell’immagazzinamento dei prodotti della terra. I popoli della Mesopotamia sperimentarono per primi la cottura delle verdure. Ignari della perdita di componenti tipici delle verdure quali enzimi, vitamine e sali minerali, che dai 60° C in su precipitano nell’acqua di cottura, i Babilonesi bollivano tutto: aglio, porri e cipolle venivano, infatti, consumati principalmente lessi. Anche i prodotti degli orti delle valli del Nilo, ritrovati nella famosa tomba di Kha e Merit ricomposta nel Museo Egizio di Torino, dimostrano la presenza di ortaggi nella dieta dell’epoca.
Furono, però, i Greci ad addomesticare la natura per produrre i frutti dell’agricoltura che rappresentavano gran parte del loro apporto calorico quotidiano, dato che la carne veniva spartita con le divinità. Quale padre della dietetica classica, Ippocrate dimostrò gli effetti benefici di carote, sedani e di molte altre verdure. I Romani mangiavano diversi tipi di ortaggi: rape, barbabietole, carote, ravanelli, maceroni, bulbi, cipolle, aglio, porri, asparagi, funghi, cavoli, lattuga, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie e piselli, che venivano mischiati alla carne e alle spezie, in ricette particolarmente elaborate da meritare un posto nel “De Re Coquinaria”, un’enciclopedia scritta da Marco Gavio Apicio nel primo secolo d.C. composta da più libri, di cui il terzo è dedicato agli ortaggi. I cuochi romani erano bravissimi nell’imitare camuffando i sapori.
La leggenda narra che un giorno Nicodemo, il re di Britannia, convinto di mangiare acciughe mandò giù una rapa tagliata a lunghe fettine bollite con olio, sale e semi di papavero, senza accorgersi dell’inganno. Con il procedere dei tempi, la diffusione del mercato nel periodo medievale rese possibili gli scambi, attivando la convenienza dei proprietari a far fruttare le proprie terre per venderne i prodotti.
La vera arte nella preparazione dei cibi inizia però nell’era delle grandi scoperte: il XVI secolo. I navigatori importarono in Europa verdure sino ad allora sconosciute, integrando la dieta con prodotti come le zucchine, il mais, il pomodoro, gli spinaci e le patate, che hanno salvato intere popolazioni dalle carestie. Ci vollero circa due secoli e una crescita demografica rilevante per introdurre le verdure, giunte dal Nuovo Mondo, nella coltivazione nostrana: solo allora i contadini si resero conto del valore delle piante d’oltreoceano, più resistenti e redditizie rispetto al seme impiegato in precedenza.
Nell’800, con l’industrializzazione, idearono metodi sempre più moderni per coltivare e conservare gli alimenti che rivoluzionarono le abitudini del consumo alimentare. In questi ultimi anni ci si è abituati alla presenza di primizie e tardizie, spesso provenienti anche da paesi lontani, sui banchi degli ortolani e dei supermercati. Inoltre, alcuni ortaggi, per andare sempre più incontro alle esigenze dei consumatori, sono messi in vendita pronti per l’uso, surgelati, confezionati in buste o racchiusi in barattoli.
Si sta registrando, però, un’inversione di tendenza: dal globale al locale. Anziché frutta e verdura che arrivano dall’altra parte del mondo, sempre più persone preferiscono acquistare prodotti del proprio territorio, oppure rifornirsi direttamente dai produttori agricoli o nei “farmer markets”, mercati gestiti direttamente dagli agricoltori.
fonte: Campagna informativa “Sai quel che mangi” – https://www.politicheagricole.it